Spiritualità
L’Imitazione di Cristo, uno dei più grandi capolavori di tutti i tempi
Nella nostra lingua, la prima edizione è del 1488. Meriti, demeriti e missione
di Giandomenico Mucci S.J.
Il libro De imitazione Christi è uno dei maggiori long seller della storia. Basti pensare che soltanto nel XV secolo ebbe un’ottantina di edizioni: in latino, in catalano, in neerlandese, in francese, in alto e basso tedesco, in castigliano, in italiano. Nella nostra lingua, la prima edizione è del 1488.
La storia dell’autore e della redazione del testo è come la questione omerica. Ne fu autore Thomas a Kempen, Giovanni Gersen o altri? Thomas a Kempen scrisse il testo o ne fu soltanto il copista? Il testo è opera di una mente e di un’anima sola, o lo composero più mani? L’unica cosa certa è che l’autore – come notò Johan Huizinga – fu «un uomo che non era né un teologo né un umanista né un filosofo né un poeta, che scrisse il libro che doveva essere il conforto dei secoli».
Si ritiene comunemente che il libro nacque nell’ambiente fiammingo della devotio moderna ai primi del Quattrocento, quando, venuti a noia i sofismi della tarda scolastica, si ricercò un rapporto più diretto con Cristo stesso, una religiosità più personale. In Italia, il libro entrò con il moto di rinnovamento della vita monastica fiorito in concomitanza di quella unione di monasteri benedettini che, dopo l’incorporazione di Montecassino, sarebbe divenuta la Congregazione Cassinese.
Il De imitazione è l’unico testo spirituale medievale che non cadde in disuso con la Controriforma e poi con il razionalismo e ancora oggi è il libro di meditazione di milioni di persone nel mondo. Benedetto Croce lo annoverava tra le “cose assai belle”.
Alcuni anni fa, in Francia, è stato varato un progetto nazionale per lo studio degli esemplari antichi del De imitazione conservati nelle principali raccolte librarie di Parigi e per la pubblicazione di un catalogo con saggi introduttivi. È stata approntata una mostra della quale resta memoria in un elegante catalogo di schede e fotografie. I due volumi permettono di osservare le variazioni subite nel tempo dalla presentazione editoriale di questo testo, così rappresentativo per la cultura e la spiritualità dell’Occidente cristiano.
“Il libro più bello”?
“L’Imitation est le plus beau livre qui soit sorti de le main d’un homme puisque l’Evangile n’en vient pas”. La presenza costante del De imitazione sul mercato librario, le versioni e le edizioni continuamente approntate, in Italia certamente, sono una conferma di questo notissimo giudizio. Ma è un libro ancora letto? Evidentemente sì, ma non come lo fu fino alla prima metà del Novecento. Nei suoi confronti, c’è oggi una certa disaffezione. Quali le cause?
Il De imitazione ha avuto, e ha, il merito di concentrare il discepolo sulla sequela di Cristo e sulle sue esigenze e di sottolineare fortemente la parte che l’affettività gioca in tale relazione. Ha forse il demerito di reagire vigorosamente contro l’intellettualismo della teologia e della stessa spiritualità e di accentuare nel lettore la cura di vigilare sulla vita conventuale e comunitaria. Proviene da questa sua caratteristica l’accusa al libro di proporre una spiritualità intimista, affettiva, soggettiva, in ogni caso privata e devozionale, mentre il cristiano d’oggi è tutto proteso al comunitario, al pubblico, all’oggettivo, al liturgico. Ai suoi occhi, non trova grazia neppure la quarta parte del libro, consacrata tutta all’Eucarestia, perché, si dice, essa dà maggiore importanza al cammino psicologico dell’uomo spirituale verso Gesù che non al mistero di Cristo contemplato in se stesso.
Un’altra accusa ricorrente al libro consiste nell’attribuirgli, da un lato, il disprezzo del corpo e, dall’altro, il primato della preghiera contemplativa sull’azione, secondo il modello “narcisistico” della spiritualità medievale. Per quanto riguarda questo secondo punto, è comprensibile che la nostra epoca senta piuttosto il primato dell’azione. Ma è stata notata la stranezza di questa stessa epoca che vede intimismo e pietismo nel De imitatione e opere simili, ma continua giustamente a pregiare la musica, i corali e le arie delle Passionen di Bach, che sono espressione pura del pietismo storico. Se poi, sotto l’accusa, si cela l’idea inespressa che la lettura di quel libro allontanerebbe dall’azione e comprometterebbe l’iniziativa apostolica, bisognerebbe spiegare il fatto che insigni uomini di azione dediti al ministero sacerdotale, come sant’Ignazio di Loyola e san Francesco di Sales, ebbero carissimo il De imitazione e ne trasfusero spirito e dottrina nei loro scritti.
Quando però si passa dalle accuse superficiali al nostro contesto culturale, che non è più quello nel quale si è formato il libro, la critica ha la sua giustificazione. Oggi si vive imbevuti di una cultura che professa una quasi “fede teologale” nelle possibilità umane e si spinge fino a pensare che la scienza infrangerà anche il determinismo della morte. È nata una civiltà che o nega o prescinde da Dio, ritenendolo superfluo, e ha comunque demitizzato dogmi, credenze e certezze. Come potrebbe questa cultura stimare un libro che, per molti versi, loda e propone la fuga saeculi?
Si aggiunga inoltre che questo libro, teo- e cristocentrico, reca in sé i tratti del tipo di vita monastico-contemplativa, che si configurano come antiumani, e perfino antievangelici, alla mentalità contemporanea, in taluni casi anche cattolica. Sono, infatti, certi cattolici che, ingiustamente e ingenerosamente, rimproverano al De imitazione uno scarso sviluppo ecclesiologico, sacramentale, missionario e pastorale, al quale essi sono diventati sensibili dopo la Lumen gentium e la Gaudium et spes.
Un simile appunto critico si potrebbe fare a tutte le opere teologiche e ascetiche del passato – non esclusi i più celebri trattati patristici e gli stessi Vangeli – nelle quali non è contenuto il ricco sviluppo teologico, per esempio dell’ecclesiologia e della mariologia, posseduto dalla Chiesa soltanto in tempi posteriori. A nessun libro si può chiedere ciò che non può dare per ragioni cronologiche e culturali. E ogni libro va giudicato all’interno della cultura che lo ha prodotto.
Ora, la missione del De imitazione fu quella di educare all’affettuosa contemplazione dell’umanità di Cristo, per poi accedere, liberata l’anima dal disordine morale, all’unione con Dio: un programma che forma il saldo e perpetuo fondamento della spiritualità cristiana come tale. Il libro è un ottimo direttorio spirituale, e non è certo casualmente che l’Autore degli Esercizi lo lesse per tutta la vita e ne consigliò la meditazione ai suoi religiosi. I due testi, infatti, hanno in comune il fine, il metodo e i mezzi.
“La ricerca di un nuovo equilibrio”
La discussione sulla validità spirituale per l’epoca nostra del libro di cui trattiamo in queste pagine richiama spontaneamente una discussione ben più importante, che occupò a lungo il mondo cattolico e quello laicista negli anni che seguirono la conclusione del Vaticano II e che ancora oggi non è del tutto sopita. Anzi, sotto le opposte opinioni sul valore del De imitazione Christi agiscono la disputa e la mentalità che riempirono di sé saggi teologici e storici, resoconti giornalistici, tavole rotonde nel periodo postconciliare.
Secondo alcuni osservatori, dopo il Concilio, la gerarchia della Chiesa, disorientata e turbata dinanzi alle interpretazioni “progressiste” dei documenti conciliari, avrebbe macchinato una forma di “restaurazione” contro la modernità per arginarne la pericolosa penetrazione tra le fila dei cattolici. Si sarebbe, quindi, ordita una congiura contro un certo ottimismo antropologico. E poiché l’anima del moderno, la concezione fondativa della realtà, è la storia come costruzione delle relazioni tra le cose e nuova ontologia, la gerarchia della Chiesa era accusata di voler retrocedere all’ontologia dell’essere quale era stata formulata dal pensiero antico, classico e medievale.
Nella polemica vivacissima intervenne l’allora card. Ratzinger. C’è un significato negativo di restaurazione, quello comunemente inteso, e la Chiesa, che «va avanti verso il compimento della storia e guarda innanzi al Signore che viene», lo respinge. Ma esiste anche un significato positivo di restaurazione: essa è intesa “come recupero di valori perduti all’interno di una nuova totalità”.
Gli effetti di questa polemica, ancorché non spenti, si sono alquanto attenuati. Resta vivo il bisogno di ricercare sempre di nuovo l’equilibrio che ricomponga in ogni campo le acquisizioni recenti con valori spesso dimenticati. Con il fine di una più armonica totalità, è necessario, per una esistenza compiutamente cristiana, tener vivo il senso della vocazione alla santità, della preghiera personale, della purificazione del cuore, delle virtù passive, della centralità della grazia, della Chiesa come comunità di fede e di preghiera. Il De imitazione Christi può ancora egregiamente contribuire a tale scopo. Aveva ragione un illustre storico della spiritualità di dissentire fermamente dai denigratori del celebre testo e di compatire come “scempiaggine” il loro consiglio ai giovani di disertarne la lettura.